La leggenda del golf vuole che gli attuali bunker distribuiti a piene mani dai progettisti lungo i campi siano gli eredi delle buche dove le pecore delle Higlands scozzesi cercavano riparo dal vento, stringendosi l’una all’altra. Siccome i pastori, per ingannare il tempo, s’erano inventati questo giochetto di bastoni e palline di fortuna sulle stesse strisce erbose in riva al mare, le fosse anti vento delle loro pecore finirono col far parte del percorso, diventando anche un elemento caratteristico del golf fin dalle sue origini. L’immagine fa una certa tenerezza: le
povere pecorelle flagellate dal vento del nord (lo conosce bene chiunque abbia avuto la
fortuna di giocare da quelle parti) che si stringono l’una all’altra in quei ripari di fortuna. Altro
non avevano a disposizione: sui links non ci sono alberi né abbondano le colline. Così le
poverine si ammassavano per farsi caldo a vicenda e, calpestando e ricalpestando l’erba, ne
facevano affiorare il fondo sabbioso.
Devo anche dire, però, che ogni tenerezza svanisce quando la nostra pallina finisce nella sabbia, anziché in asta (o in fairway, nel caso di un drive), come si era sperato. Ma proprio qui dovevano venire a scaldarsi le pecorelle? Se poi ci si trova appunto in Scozia, dove le sponde sono roba da free climbing oppure hanno la forma di un perfetto cilindro poco più largo di noi stessi, qualche maledizione ai pur amabili quadrupedi ci scappa. Loro non ne hanno colpa, ma, benedette pecore, se non avessero preso l’abitudine di scavar quelle fosse, oggi noi avremmo qualche guaio in meno. E sì che di lana ne hanno addosso per proteggersi.
Inutile negarlo: il bunker, per molti Carrellanti, resta uno dei misteri dolorosi del golf. Più o meno tutti sanno, dai maestri, come comportarsi. I piedi infossati, il bounce del sand wedge da far lavorare, la sabbia da colpire prima della palla (ma non troppa, né troppo poca), l’accelerazione da continuare dopo l’impatto. Sulla teoria, più o meno, ci siamo. E’ la pratica,
però, che ci frega. Per quanto io giochi e per quanti compagni di gioco io possa cambiare, non
sento mai salutare con soddisfazione l’atterraggio di una pallina nella sabbia. Perché lì dentro
non c’è pressoché nessuno che abbia certezza dell’immediato futuro (non parlo dei quasi
scratch: e anzi con loro non voglio nemmeno parlare). Poca sabbia, troppa sabbia; asta lunga uscita corta; asta corta, uscita lunga. La verità? In bunker quasi nessuno è veramente padrone del proprio destino.
Nella sabbia sprofonda anche il nostro orgoglio. Ed è proprio la semplicità con cui i giocatori del Tour imbucano o lasciano la palla data dal bunker a provocare nel telespettatore una sensazione mista d’invidia e di sconforto.
Loro, come si sa, vedono la sabbia come male minore in caso di green mancato. Noi ci sentiamo più tranquilli perfino nel rough duro e spesso dell’avant-green: un attimo dopo,
quando la pallina flappata resta lì oppure scappa via per effetto di un top, ci accorgeremo che
sarebbe stato meglio sfidare la sabbia, ma tant’è: la nostra mente è fatta così.
Personalmente cerco di dedicare sempre un po’ di pratica specifica a questo benedetto tipo di
colpo con cui non si riesce a fare pace. Rovescio in bunker un cestello intero di palline, provo
le diverse uscite (corta, lunga, media), i diversi lie (in piano, in salita, in discesa), la diversa
quantità di sabbia. Al netto di qualche colpo pesante che non passa la sponda, i risultati sono
buoni a conferma che la pratica è l’unico rimedio possibile.
Poi vado in campo e tutto cambia, come al solito. E mentre la pallina, colpita troppo netta, vola oltre il green, ricomincio a contare le pecore. E anche a maledirle un po’, sia pure
affettuosamente.