Udine vista dall’Oriente, prima del 1998, non era nemmeno un punto sul mappamondo.
Agli umani del lontano Est talvolta capitava di snocciolare nomi di città e di paesi italiani. Nel dubbio si rivolgevano ai geografi: ma quel posto lì è per caso vicino a Venezia? Laguna uguale ombelico d’Italy.
Ora a ventisei anni dalla rassegna numero zero formata da pellicole rigorosamente hongkonghesi, a cura del Cec friulano — che proprio a Udine con coraggio si mostrarono in tutta la sostanza action — l’esposizione di prodotti orientali è lievitata negli anni come un buon pane di panificio. Centinaia di film sono stati offerti a platee di studiosi e alla popolazione più curiosa creando così l’unico avamposto europeo di filmografia cinese, giapponese, malesiana, tailandese, filippina, coreana del Sud. Adesso, a migliaia di chilometri di distanza, sanno dov’è Udine.
In aprile, dal 1999 — atto iniziale del “Far East Film Festival 1” — atterrano aerei con dentro i critici del Continente più vasto della Terra, che diffondono il verbo di un linguaggio universale. A volte la traduzione nemmeno serve, l’immagine spiega.
Settantacinque titoli riempiono il cartellone del numero ventisette in azione dal 24 aprile al 2 maggio nel teatro-salotto della città, ovvero il Giovanni da Udine, 1200 posti quasi mai liberi durante i dieci giorni della rassegna. E al Visionario.
Sarebbe riduttivo definire il Feff un semplice contenitore di sceneggiature originali. In questi due decenni e oltre siamo stati spettatori di una sostanziale evoluzione della società asiatica. Il cinema riflette l’esistenza anche quando guarda al di là del presente, portandosi appresso le unicità, gli stress, la bellezza e le problematiche del momento, svelando senza volere la vita com’è per davvero.
La Cina ha totalmente sconvolto il suo credo filmico. La campagna con il suo lento rito rurale, a cui si aggiunge lo sguardo epico sui secoli andati delle Dinastie, hanno per anni rappresentato i due punti irremovibili dell’export della Repubblica Popolare nei Paesi occidentali. Come se i fotogrammi scelti rappresentassero un fermo immagine di ciò che il rigoroso popolo voleva mostrarci. Non tutto veniva (e viene) impacchettato e spedito. La censura sforbiciava e sforbicia tenendo conto di regole precise: anche il minimo dettaglio scomodo non passa il setaccio. Le maglie sono strettissime.
Quest’anno i cinesi schierano una portaerei, giusto per far capire l’imponenza della gittata.
Dicevamo dei settantacinque titoli, quarantotto dei quali in concorso, che avranno ben undici targhe diverse. Sette saranno le prime mondiali, quindici le internazionali e venti le europee.
Intrigante è la scelta per l’opening night di giovedì 24: “Green Wave”, una vicenda cinese di speranze e di errori, ma sopratutto un focus su un fenomeno nuovo, il tangping. La gioventù si sdraia rifiutando le logiche competitive della carriera e del successo. Una specie di protesta sull’arrivismo.
Al Feff si fanno affari. Il giro di domanda e offerta si sta avvicinando a quello dei grandi festival europei: registi e produttori orientali si siedono di fronte a produttori e registi occidentali per cercare una stretta di mano, una condivisione di racconti, un progetto che possa far sventolare due bandiere.
Quando nel 1991 uscì “Lanterne rosse” di Zhang Yimou, con l’affascinante Gong Li, cominciammo a dialogare — da Venezia, Cannes e Berlino — con un qualcosa di impalpabile e di indecifrabile che ci pareva preistoria, sebbene di una fascinazione ipnotica, ma con la presenza costante di tempi scenici indecenti per noi veloci uomini dell’allora contemporaneo.
Imparammo, però, a esaminarli con cura e respirando piano, provando a sradicare il nostro punto di vista a favore del loro. Entrammo così in una filosofia d’ascolto unica. Ecco perché si viene al Feff: per eludere il solito banale cinematografo.